Nello
Biscotti
Vico del Gargano (Fg)
“Dalla cicoria selvatica alla cicoria coltivata: in questa metamorfosi c’è la storia dell’agricoltura e del cibo”. Forse centinaia di migliaia di anni fa Nello Biscotti sarebbe stato uno sciamano. Invece è nato negli anni in cui l’Italia smetteva di essere un paese agricolo per provare a vestire i panni della potenza industriale. È andata com’è andata, ma questa è un’altra storia. Il punto è che da qual momento i contadini sono diventati come i panda: una specie in via di estinzione. Ma se i contadini scompaiono, con loro si portano via anche la biodiversità.
Perché quando il bosco si allarga e si prende le terre incolte non sempre è una buona notizia. Chi seleziona e alleva e propaga e garantisce l’esistenza di un frutto antico, se non l’uomo che ha imparato a farlo da suo padre, e suo padre prima di lui, e così via? Chi ingaggia la perenne e quotidiana battaglia fra natura selvaggia e costruzione tutta umana del tanto celebrato paesaggio agricolo? Quello che l’etnobotanica dice è: attenzione, perché senza accorgercene, cambia il paesaggio agricolo e cambia pure il paesaggio antropologico. Cambia il paesaggio e cambi tu.
E poi, le erbe spontanee. Sono quelle che oggi chiamiamo erbe infestanti, che una volta invece venivano contenute e controllate, e consentivano al contadino di sfamarsi e diversificare la sua dieta. Specie quando campagna significava miseria. A salvare l’umanità, in fondo, sono state le piante selvatiche. E “non le ha create Dio, ma si sono create nel momento in cui abbiamo imparato a fare i contadini”, dice Nello. Poi ognuno si è scelto le sue. Sul perché un popolo che abita una terra abbia scelto di cibarsi di una pianta piuttosto che di un’altra è uno dei tanti enigmi che un etnobotanico cerca di indagare e spiegare.
Per la prima volta nella storia del mondo, scienziati come Nello tramanderanno delle conoscenze alle generazioni successive attraverso la parola scritta e non quella parlata, se non attraverso la semplice osservazioni di pratiche e di gesti. Anche da questo filo, sempre più sottile, dipende il futuro di ciò che gli etnobotanici chiamano biocultura.
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