Francesco
De Carlo
Bitritto (Ba)
Una famiglia che si prende cura di un territorio da più quattrocento anni è parte del paesaggio di quel territorio. Gli dà anima e ne riceve, lo modifica e lo asseconda. Un operaio agricolo diventa un operatore culturale più di tanti operatori culturali. Spesso roots è molto meglio di radical chic. Soprattutto se lavora nei campi di Puglia coltivati a oliveto, dove l’olio extravergine d’oliva è, di fatto, una forma di cultura. Che racconta una terra e il popolo che lo abita e di entrambi conserva la memoria. Di un albero di ulivo millenario bisogna avere rispetto, così come delle cultivar. In Puglia, così come in Italia, ogni territorio ha la sua. Da secoli, in certi casi da millenni.
La famiglia De Carlo non esiste se non legata agli ulivi che coltiva da quattrocento anni. Senza le sue piante, senza i suoi ortaggi, senza le persone che ogni mattina vanno negli uliveti o lavorano in frantoio. Perché fare olio è anzitutto un lavoro agricolo, ed essere frantoiani è l’arte di estrarre l’essenza di una terra attraverso le olive che da quella terra ogni albero produce. Ogni bottiglia d’olio, per un frantoiano, è come un figlio.
Così come ogni cultivar ha il suo carattere, che proprio come fa una genitore coi propri figli si deve comprendere, interpretare, assecondare. Correggere, se necessario. Una cultivar disegna un territorio, lo rende diverso dall’altro. E maritandosi con la terra e con l’uomo lo rende unico al mondo. Papà Saverio, mamma Grazia, e poi Francesco e Marina, e tutti gli alberi sono padri e madri, figli e figlie, fratelli e sorelle. Che a loro sopravvivranno.
“Prendila sul serio – scrive Nazim Hikmet – ma sul serio a tal punto / che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi / non perché restino ai tuoi figli / ma perché non crederai alla morte / pur temendola / e la vita peserà di più sulla bilancia”.
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