D’Amico,
Rapini
e Priore
San Severo (Fg)
“Poiché il jazz acquisisce la sua stessa vitalità nell’improvvisare sui materiali tradizionali – scrive Ralph Ellison – il jazzista deve perdere la propria identità mentre la trova”. Girolamo alla tromba, Louis al pianoforte e Ulrico al contrabbasso. Il jazz e l’Italia fra gli anni Settanta e Ottanta, quelli del disincanto. Coltrane, Andrea Pazienza e le estati a San Menaio. Nero di Troia, Montepulciano e Bombino bianco vendemmiati solo per far sposare le figlie. Vini fatti per partire in treno in vagoni cisterna senza più fare ritorno, come gli emigranti. Il jazz nelle orecchie, l’odore di mosto nel naso e una folle idea in testa. “Se ci sono più di tre accordi, è jazz”, diceva Lou Reed. Ripensare San Severo, la Capitanata, tutto il mondo intorno. Ripensare la terra dei padri per smarrirla e poi ritrovarla. Rinnegare la propria tradizione per andarla cercando. In trio, svincolandosi completamente dallo standard di partenza per rendere l’improvvisazione stessa uno standard.
Mettersi a produrre metodo classico in Puglia è un progetto senza nessun futuro, dicevano tutti. Solo un altro matto come Veronelli poteva dargli credito. Ma tanto lo avrebbero fatto lo stesso. E meno male, perché è così che hanno disegnato una visione nuova della Puglia del vino, fatta di libertà di amare la propria terra, come si vuole e con chi si vuole. Perché, come diceva Paz, “amore è tutto ciò che si può ancora tradire”.
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